sabato 30 ottobre 2010

Deserto

Anima mia mai più
ti condurrò a bussare
invano
dove alto per te
risuona il deserto.
Non c'è spiraglio al silenzio
dove il silenzio canta troppo brevi
inganni.
Non troverai aurore
nei luoghi oscuri
dove il giglio muore.

venerdì 29 ottobre 2010

Facciamo il punto

Vorrei spendere due parole per ringraziare le persone che leggono quel che scrivo.
Ho aperto il blog in un giorno dello scorso agosto con "Il cammino" che considero una sorta di manifesto, la linea guida del mio pensiero.
Sono tornata a scrivervi il 2 ottobre e da quella data ho cominciato una attività piuttosto regolare di pubblicazione.
Ad oggi  le statistiche mi danno 489 visite nell'ultimo mese.
Non sono in grado di dire se siano tante , poche o "medie".
Non so quali siano le cifre su cui si attestano i blog creati da sconosciuti.
Non so neanche quanti siano i clic casuali, la tara, che va necessariamente tolta, per ottenere il numero delle visite intenzionali.
Molto più ridotto, il numero dei lettori fissi.
Amici, mi commuovete. A voi un grazie particolare per l'affetto, la fiducia, il sostegno.
Cosa manca al blog?
A mio parere, un po' di dinamismo.
Il confronto.
Il commento.
La critica, anche negativa.
Proposte.
Riflessioni da condividere.
E' uno spazio aperto.
Voglio intensamente che diventi anche un momento di dibattito.
Non pensavo, quando l'ho creato, ad una semplice vetrina, da cui mettermi in mostra.
Sarebbe una esibizione vuota. Fine a se stessa.
Come ho già segnalato, può commentare anche chi non è iscritto al blog tra i lettori fissi.

lunedì 25 ottobre 2010

Tu, amato di ogni risveglio

Amore è guardarti negli occhi ogni giorno
e sentirmi a casa.
Addormentarmi sicura
sulla sponda del tuo respiro.
Tu, amato di ogni risveglio,
allontani le ombre del cuore.
 Nel certame del buio risplendi
paladino del sogno più chiaro.
Ecco.
Ti consegno i fantasmi di ogni incertezza.
Che sia il tuo azzurro
a definirne i colori.

venerdì 22 ottobre 2010

Perché la violenza fa audience?
Non ha occhi il cammino dell'anima.
E' il respiro che delinea il sentiero.

martedì 19 ottobre 2010

La matematica dell'amore

L'amore conosce soltanto una operazione: la moltiplicazione.
Non si nasce con una quantità predeterminata d'amore, che poi andrà suddivisa nel corso della vita tra le creature che si incontrano. In amore non ci sono quote fisse e noi non siamo vasi a limitata capacità. Anzi.
L'amore incrementa se stesso.
E' l'unico investimento garantito della nostra vita.

domenica 17 ottobre 2010

Penelope

Ho tessuto trame infinite
sul telaio delle notti.
A lungo ho guardato lune
specchiarsi
pavide nella risaia.
E il fango immoto
era argento.
La voce sgraziata delle rane
un coro d'angeli
a conforto dei miei silenzi
disperati.
Ho scandito domande
d'inesatta crisalide.
Risposte
ho bruciato
come farfalle  -effimere.

Dietro ogni velo
- fosse ordito o ignoto-
balenava l'enigma lucente
dell'ombra.

venerdì 15 ottobre 2010

Percorsi

Ascolta l'ineguale fluire.
Come il ruscello decifra la via
tra le pietre
il canto d'amore del cùculo
scava il tramonto.
Il mio canto insieme percorre
le anguste strettoie
del sentiero arcano
dove è l'ombra
a disegnare il cammino.

giovedì 14 ottobre 2010

Il midollo della vita

Chinato sulle tue radici
uomo solo
lungo l'abisso dell'orizzonte
ascolti una conchiglia vuota.
E' un canto perduto di sirena.
Implacabile
ti fa nudo.
Forse impaurito.
Eppure tra poco
la morta madreperla
vibrerà
del tuo respiro.
Spirerà il tuo richiamo
furente.
E sarà schianto di tempesta.
La lacerata vittoria
del cacciatore antico
sul dorso della tigre.
Domata.

La pentola e l'arcobaleno

Diventerò piccina
e mi nasconderò
tra i tuoi capelli.
Dondolerò
sul tuo respiro
e quando piangerai
rotolerò fra le tue lacrime.
Poi una ad una le asciugherò.

mercoledì 13 ottobre 2010

A Pavia

Cara città
da sempre amata
anche oggi che sorgi
pallida
dietro piovosi vapori
mi dai l'incanto
di un respiro nuovo.

E non vale
il giallo gorgo
né la sponda violata
ed ignota alle cure
a farti meno amabile.

Decadi, tu.
Ma gentilmente.
Tracolli lenta
dentro ai vicoli stretti
odorosi di muffe
nei vetusti cortili
dove la spoglia magnolia
sale dai ciottoli
a ricercare le torri antiche.

Muori piano
dissolvendo i sassi
e l'arenaria sacra.

Ma se levo lo sguardo
ti vedo ancora fiera
nell'abbraccio al cielo.

Non per l'eterno
ti costruirono i padri.
Eppure un poco d'eterno
conservi
nell'immutato respiro della pietra
e nell'eco perpetua
del passo regale.

La nebbia ti dissolve.
E in questa conosciuta levità
- ancora e sempre -
io ti amo.

Geranio ( Ricordi d'autunno)

Arrossava il geranio
giorno a giorno irretito
dall'ansia avida del sole.
Larghe foglie opulente
tradivano fierezza
d'esser specchio al mattino.

Arrossava il geranio
nella pienezza ardita
della stagione promessa.
Di miele odorava
e di terra feconda
dolceamara illusione
di giorni abbacinati
in tenere vanità.

Oggi lo china l'inganno
- di quel troppo fiorire
- di un gelo furtivo
- di mani mai più visitate
(e sembra che dica io muoio).

Ma inganno sarà se ricorda?
: i suoi cieli più chiari
l'ombra lieve del vento
e poi il canto il lamento
lo schiudersi ancora alla vita.

martedì 12 ottobre 2010

Esercizi di dizione (8) Alfabeto scioglilingua



Con A


Ancora avremo agi
andremo adagio adagio
avremo alti allori
artisti assicurati
autentici assetati.
Attori antecedenti
acrobati assonnati
almeno aironi alati.

Con B

Ballo da birbante
brindando bevo birra
bagnando barbe blu
sbavando baffi buffi
in brillanti bicchieri
biscotti e bonbòn
biascicando.

Con C                                                                 Con C                           


Cuscini coperte scaldotti                                       Centoquindici cipolle
calde camicie                                                        cinque cinciallegre
corte cuffiette                                                        cinquecento cipressi
cappelli a cilindro                                                  cinquemila cinesi
copricotenne                                                         e centotre ciclamini
scarpacce scomode                                              cicale accidentate
calzini celesti                                                         cimici col cimurro.
costosi costumi                                                     Chi chiede chiarezza
carnevaleschi...                                                     rischia fischi
Calmati. Chetati.                                                   e fiaschi di Chianti
Carezza il coniglio.                                                schiantati.
China le ciglia
e chiudi a chiave
nel carrozzone
caos cimici e confusione.

Con CHI

Chi chiude a chiave
rinchiuda i chiurli
socchiuda la chiesa
e schivo s'inchini.
Né schiavo né racchio.
Ma occhio ai chiodi
se chiede chiacchiere.

Con D

Dodici o dieci?
Decidi dunque.
Dammi i dadi.
Dimmi dove
dovrò andare:
dietro le dune
dai dromedari?
O dal dentista
(sdrammatizzando) ?

Con E

Esili elefanti
esuli elevano
ellittiche elegie
agli elleni equinozi.
Eterei escono esausti.
Estinti quasi
eppure entusiasti
estremi epigoni
d'eternità.

Con F                                                      Con F

Frutta e fiori                                             La fiamma fulmina
fiori e frutta                                              un flan flambé.
fichi e frasche                                          Fiumi di fieno
frasche e fichi                                          in Val di Fiemme
frangipani di Firenze                                fanno flanella
fiorentine del Fréjùs                                 coi fiordalisi.
fagianelle in fricassea                              Fioccano affanni
fresie fredde                                            fra gli africani.
fritte o al forno.                                        Fragili fronti
Festeggiamo le frattaglie                         fremono al freddo.
fischiettando coi fringuelli.

Con G

Genova e Gaggiano
Gorizia e San Giuliano
grandina sui granchi
s'aggrovigliano i grechi
gremiti sui gradini
s'ingozzano di gechi
ingrassan le gorgiere
ingurgitano grame
galantine di gallina
gelatine al grammarnié
granatine con la grappa
sguazzando golosi
gaudenti gassosi
in gorghi gelati
di greve gassosa.

Con I

Invano Ivano a Ivrea
invola inviti involti
in istrici iracondi.
Inala incenso
imberbe illuso intonso.
Ignora intanto a Itaca
Isotta immenso istante:
ignara illustra l'isola
a illustri ierofanti.

Con GL

La quaglia origlia
nella boscaglia, ammaliata.
Dalla guglia spogliata
la battaglia sbagliata
invoglia a scagliare
la maglia sulla soglia.
Tu gettagliela! Dagliela!
E se un pendaglio
s'è impigliato
nel fermaglio
meglio vegliare:
sarà un guinzaglio?

Con GN

Ignudi gnomi bagnati
si lagnano rassegnati
gnaulando con ragni
compagni di sogni.
Disegnano cagne
e montagne di legna.
Rognose rassegne.
Ma dove cuccagne?

Con L

Lieve languiva la luna
livide lingue di lago
lente lambivano lidi.
Lontani aulenti lillà
leggeri legavano l'alba.

Con M

Mimì mastica gomme
Memo memora mamme
Meme alimenta fiamme
Minù mangia la manna
e mosto con il miele
mentre il mio Samuele
molleggia sul cammello
molcendo caramello.

Con N

Navigando navigando
nuove navi van remando.
Nella notte niente splende.
Nulla nuoce senza denti.
Navigando navigando
ninne nanne van cantando
ninne nanne innamorate
nella notte addormentate.

Con O

Un òrco òrbo si orna d'òro.
Nell'òrto l'òca divora òrzo.
L'ingolla e l'inghiotte
ingorgandosi il gozzo
quest'òca ghiotta dal còllo stòrto.

Con P

Pòco pépe pésto in pace
pungo pomi e piango prèci
péna il pètto palpitante
prude l'òcchio prepotènte
piano piano pissi pissi
pésto pépe pòco in pace
parco e prèsto prèndo pane
pòi progètto un palinsèsto
pél prozio di padre Pio.

Con Q

Quattordici quaglie
quindici quaccheri
quasi si squagliano
squassando quadrati
quando Quasimodo
con Quarto e Quintino
squarciano querce
col temperino.

Con R

Ronfa la rana
rolla la réna
ruzza il ramarro
con la cancrèna
si gratta il granchio
rampogna il ratto
ma il ragno ringhia
rode la ròsa
pòi rèma ritto
e si ripòsa.

Con S

Sussurri e sibili
schianti silenti
senza sonoro
senza spaventi
sono soltanto
strani strambotti
stereo stonati
sull'ascensore
splendida scena
senza visore.

Con T

Troppi trèni in transito
t'intronano i timpani.
Tosto tutto tacerà:
il traghetto attraccherà.
A tacchi traballanti
ti metti sotto il ponte
tracanni la tequila
t'impanni nella tela
svelto ti togli i tacchi
lesto ora tappa il tappo.
Trèma la tolda tonda
straccia la trina Tilde
frattanto tutto tace.
I trenta tristi treni
s'intruppano lontano.

Con U

Frugali uccellini blu
frullan su e giù sull'uva
ùpupe gruccioni e gru
urlano sotto i tuoni
buttano uova e gusci
a Ustica sugl'usci.
Un uomo già ubriaco
ulula con i lupi.
Umidi muri bui
risucchiano la luna.

Con V

Novantamila viole
invadevano Viggiù
varani voracissimi
vagheggiavano virtù.
Vorrei rassicurarvi
invece qui non vale
svanisce il bel vestito
il vel velava il vero:
le viole coi varani
divorano divani.

lunedì 11 ottobre 2010

Tutti, vogliamo la pace.
Ci riempiamo la bocca, di   PPPACE.
Slogan, manifesti, bandiere. Facile colorarli di pace. Facile la critica e il dissenso ai governi.
Facile e, sì, giusto.
Giusto chiedere di vivere in un mondo senza guerre. Sacrosanto chiederlo ai governanti .
Legittima aspettativa. Ovvia richiesta. Preferisci vivere in un mondo dove piovono bombe e quando esci di casa salutando tua moglie, non sai se la rivedrai? o in un posto dove il ritorno è una tranquilla certezza? Preferisci un pugno che ti fa saltare i denti dalla bocca o una carezza? Ovvie risposte. Inutili domande.
Ma al di là (anzi, al di qua...) della PPPACE nel mondo, esiste la pace di ogni giorno. Quella che ciascuno di noi può edificare in sé, per sé e per chi gli sta attorno.
E' una pace non facile da conquistare e da agire. Richiede pazienza e un bel po' di lavoro sul desiderio di affermazione e di potere che, in varia misura, pare albergare  in ogni essere umano.
E' una pace che passa attraverso compassione e perdono.
Di se stessi, prima che degli altri. Non posso perdonare niente ad un altro, se prima non ho riconosciuto quel che "in me" non va e non l'ho perdonato.
Parliamo di piccole cose. Dei gesti quotidiani. Delle azioni di ogni giorno.
Quante volte, nella nostra giornata, incontriamo persone maleducate, scontrose, irascibili, attaccabrighe. Allo sportello della posta c'è sempre un'impiegata che pare opporsi a tutte le operazioni che devi fare; in ospedale trovi l'infermiera che risponde sgarbata e sembra non tenere in alcun conto l'altrui sofferenza, o il medico che liquida frettoloso, quando non villano, domande e dubbi. Non parliamo di quando si è in automobile, un mezzo che pare scatenare aggressività anche nelle persone da cui mai te la aspetteresti, forse perché ci si sente, in auto, potenti ( non si metteva...un tigre nel motore?) e protetti. Parcheggi, code, precedenze, sembrano essere altrettante occasioni per affermare una propria "supremazia" a dispetto e danno del prossimo di turno.
Ogni giorno può capitare di incontrare una persona che "tira le sberle". E molto spesso finisce davvero a sberle. Allora si va a schiaffi di parole, insulti, scambi di pesantezze, dispetto per dispetto. Va ancora bene se la cosa finisce lì, ma non sempre è così. Il crescendo di violenza può non arrestarsi al lancio delle parole. La cronaca ci racconta di altri "lanci". Drammatici. Così capita che investi un cane che ti attraversa la strada all'improvviso e ti ritrovi in coma per i pugni del padrone del cane.
Esempi al limite, ma la radice è quella stessa che muove la piccola aggressività quotidiana, che ci fa rispondere sberle verbali all'impiegata postale, all'infermiera, al medico...
Il cambiamento deve nascere da qui. Dal piccolo quotidiano.
Siamo tutti uomini sotto lo stesso cielo.
Tutti abbiamo i piedi ancorati a questo grumo di polvere che viaggia nello spazio, che chiamiamo Terra; siamo tutti accomunati nello stesso destino di nascere e morire. Il nostro corpo ha un inizio e una fine. E già vista così la commedia umana, non avrebbe senso la violenza. Prevaricare, perché? Essere primi, di che cosa? Quale soddisfazione può dare, accaparrarsi il primo posto nella fila del salumiere?
Ma c'è di più. Se i piedi sono le nostre radici, il capo è il nostro ponte verso il cielo. Dentro il corpo fisico  - questo corpo che doverosamente dobbiamo custodire e non maltrattare, ma che, essendo materia, ha un destino certo di decadimento e polverizzazione-  abbiamo un'intelligenza (più o meno vivace) e uno spirito (più o meno maturo), che ha un altrettanto certo destino di eternità. Lo spirito, che letteralmente ci anima, ma che spesso nemmeno riconosciamo.
I piedi ci tengono attaccati alla terra. Al "qui" e "ora".
La testa ci proietta nel desiderio d'infinito.
Nella nostra vita terrena, il punto d'equilibrio sta a metà  (nel cuore?),  tra la terra e il cielo.
E' un punto in cui si impara a distinguere tra i bisogni elementari, che vanno "doverosamente" soddisfatti, e tutta una pletora di finti bisogni, tra cui, appunto, il desiderio di supremazia, prevaricazione, potere; desiderio che scatena aggressività, di qualunque entità sia la posta in palio, sia essa il primo posto nella fila del salumiere, piuttosto che il possesso di un territorio.
Per capire, dentro noi stessi, quanto vani siano i finti bisogni, è utile immaginare di salire guardando in giù.
Partiamo dalla nostra casa e saliamo. La casa, con i suoi abitanti, ci apparirà sempre più piccola. La vedremo accanto alle altre, nella città. Ma, salendo, anche la città diventerà sempre più piccola, accanto ad altri luoghi abitati, finché, salendo ancora, non vedremo altro che quel grumo di polvere che viaggia nello spazio, che chiamiamo Terra.
Che senso ha scannarsi per cose che, guardando dall'alto (e neanche tanto, in alto) non esistono più?
Torniamo alla quotidianità dell'arroganza altrui.
Il muro che ho davanti a me, mi oppone resistenza solo se io lo spingo.
Se all'arroganza rispondo com-patendo, disarmo l'aggressore. Il sorriso, dietro cui l'altro possa leggere una comprensione autentica, smonta lo sgarbo.
La persona maleducata che mi sta rispondendo male, magari sta solo vivendo un momento doloroso, di fatica, di pena. Se invece di renderle la maleducazione, in una sorta di atto dimostrativo di forza, la accolgo, "perdonandola" ottengo sicuramente di non avvitarmi in  "una spirale di violenza" (perché proprio di questo si tratta, anche se la frase viene usata in ambiti di  gravità estrema), e quasi sicuramente di rimodularla verso un atteggiamento più disponibile. 
Non si tratta di accettare supinamente villanie e prevaricazioni, bensì di "disinnescarle".
La nostra vita terrena è composta di una miriade di atti più o meno significativi secondo l'ottica "mondana". Di ciascuno di questi atti, anche dei più piccoli, abbiamo la responsabilità, perché, pur nella loro "insignificanza" (mondana e a maggior ragione extramondana), essi concorrono a comporre la musica del mondo.
La pace vera si potrà realizzare non come semplice assenza di guerra, ma  solo se ciascuno di noi ne farà un proprio personale obiettivo, perseguendola nei piccoli gesti di ogni giorno, suonando note quotidiane di non-violenza.

venerdì 8 ottobre 2010

Perdersi

Perdersi sulla strada del ritorno a casa, in un giorno qualunque di inizio autunno. Sbagli una direzione. O forse ti è solo "sembrato" di sbagliare direzione. E all'improvviso ti trovi in un mondo sconosciuto. La strada corre. TU devi correre accanto ad altre automobili di sconosciuti, che guidano ignari di te, tranquilli verso una meta nota.
Non puoi fermarti. Non puoi tornare indietro. La direzione sbagliata non può essere modificata, ripensata, anche solo un attimo soppesata.
Enormi palazzi sembrano piegarsi sopra di te. Tutti uguali. Monocromatici. Già visti, nel tuo mondo, ma qui appartenenti ad un altrove alieno.
La gola si stringe. La testa si svuota. Presto farà buio. Non si vedranno  le indicazioni stradali. Forse finirà la benzina. Il cellulare sta per scaricarsi.
Panico.
No. Stiamo calmi. Ecco. Ora si può svoltare.
E invece ti riavviti  nelle anse serpentine di un centro commerciale scaturito da un sogno malvagio, pensato per risucchiarti e trattenerti fino allo sfinimento.Fino a farti dubitare di avere perduto ogni barlume di intelligenza.
Alla fine ne esci. Ma non per tua scelta. E' stato lui, il CENTRO COMMERCIALE ad espellerti.
E infatti ti ritrovi, come acqua sporca, ad andare verso uno sconosciuto depuratore.
La tua strada non è certo da questa parte. Ma almeno, ora puoi fermarti. Respirare.
Respirare a fondo, ecco cosa devi fare. Chiudere gli occhi un momento. Rilassarti. Respirare.
Inspiro. Espiro. Inspiro . Espiro.
Riapri gli occhi ed ecco che in un punto dell'orizzonte alieno compare una sorta di antenna/minareto che ti sembra di poter associare ad un percorso noto.
Dunque il maleficio del CENTRO COMMERCIALE non è stato assoluto. Hai uno spiraglio. Ti ci infili.
...La strada che ti sembrava quella buona , d'un tratto non è più una strada cittadina. Pare inoltrarsi nei campi.
Via! Tornare subito indietro. Non allontanarti ancora di più.  Non permettere al panico di ripresentarsi.
Dov'è il minareto? I cani trovano le piste naso a terra. Tu, naso in aria.
Sei di nuovo in città nel paesaggio dei grigi. Hai visto un cartello: Milano.
Dio benedica il cartello. Tu stavi USCENDO da Milano, quando è cominciato quest'incubo. Ma non importa.
Torni volentieri all'ingresso della città. Poi ti potrai fermare. Finalmente. Finalmente consultare la tua cartina.Finalmente le strade avranno un nome. Delle persone che ci camminano.
Curiosamente il grande viale veloce dove ti stanno costringendo a correre, sembra un clone di quello che avevi percorso in uscita. Quello dove a un certo punto avevi sbagliato.
Come in un sogno dove non riconosci i luoghi, tutto ti appare uguale a qualcosa di già visto. Eppure irremediabilmente diverso. Il pensiero è di quelli che mettono ansia: non sai dove sei.
Ma ancora per poco. Milano è Milano. Ci sei andata e tornata in automobile per una vita.
Infatti.
All'improvviso, così, proprio d'un tratto, riconosci il viale. Non era un clone. Era proprio lui.
Una stanza al buio. Era stato fino a un attimo fa, una stanza al buio. D'un tratto qualcuno ha acceso la luce e tu l'hai riconosciuta.
Che sollievo. Che paura. Che rabbia.Ma come è potuto succedere.
Ora ti fermi. Telefoni. Ridi (" Ma pensa cosa mi è capitato..."). Un po' ti vergogni. Rimetti in moto. Fai inversione. E ti rimetti sul viale che per anni ti ha riportata sulla strada di casa.
Veloci. Veloci. Veloci.
Tutti hanno voglia di casa.
......................................
Non ci posso credere.
Hai sbagliato di nuovo.
Nello stesso punto di prima.
Ora però riesci ad evitare di avvitarti all'interno del Malefico.
Torni subito sul viale...direzione Milano.
E' un incubo. Una puntata di "Ai confini della realtà" dove la protagonista si perde per sempre in un'altra dimensione e continua a girare in tondo, in luoghi sempre più deserti e senza vita.
Ti sembra che i colori stiano lasciando i luoghi che attraversi.
Stai precipitando in un mondo in bianco e nero.
Di nuovo il panico. La paura che ti aliena l'orizzonte. Un sentimento di estraniamento. Di solitudine. Di impossibilità a modificare quel che sta accadendo. Una frustrazione gelida ti annichilisce.
............
BASTA!
Stringi i denti.
Senti come scricchiolano?
E' reale , no?
E dunque.
Sai che A SINISTRA di questa strada ce n'è un'altra che può riportarti a casa. Devi solo aspettare di poter svoltare.
Ecco. Il prossimo semaforo ha il segnale di freccia a sinistra. VAI!!!
Di colpo si scioglie il grumo sassoso che ti stava opprimendo il petto .
Fermati. Lascia attraversare questa mamma con la carrozzina.
C'è vita, finalmente. Ci sono persone. Ci sono COLORI!
Sai che la strada è quella giusta. Ma ugualmente accosti accanto ad un passante. Gli chiedi l'informazione soltanto per il gusto di sentirti dire che: "Certo, per di qua. E ci arriva dritta". Ed è una voce vera. I COLORI sono veri. Ci sono alberi. Giardini. Negozi. Bambini che giocano.
Tu, ti senti come una bimba sperduta. Come la bambina che amava Tom Gordon. E quanto in gamba è stata, ad uscire da quella immane foresta.
Tu, bimba sperduta, hai dubitato di farcela.
Tu non avevi un Tom Gordon, ma nemmeno ti eri persa nella più grande foresta d'America.
Ora puoi sorridere.
Potrai raccontarla come fosse un aneddoto. Una storiella divertente.
Rideranno della tua disattenzione. Forse a Natale qualcuno ti regalerà quell'oggetto che detesti: il navigatore.
Ma tu saprai sempre.
Nel tuo ricordo non riderai dell'incubo in bianco e nero in cui avevi smarrito la strada della tua casa.

mercoledì 6 ottobre 2010

Adolescente

Nel viso di calma magnolia
hai chiuso il segreto fluire
della tua giovinezza.
E' un'onda che preme
là dietro la fronte
che a tratti si oscura.
Tu giochi e non sai
la tua nuova sorgente:
o forse indovini.
Il riso e lo scherzo tintinnano lievi
su te verde ramo di pesco,
ma brevi rossori bagliori di gemme
furtivi scintilli schiudendo le ciglia.
Sei un fiore, una stella
una goccia di giada
giardino che dorme in attesa.
Di quali incantate speranze
tu giochi e non sai:
o forse indovini.

Omaggio a Neruda

Insieme figlio cammineremo
alle radici del mondo.
Per mano ti condurrò
dove la stilla trema
e la trafigge la luce
e ignara rompe il seme
in un grembo oscuro
di terra di linfa d'umori segreti.

Da un lago di memoria e di attesa
figlio
nasce la vita. Da fosche passioni
e da sorrisi immoti. Dal vento
che sa sferza e carezza.
Dall'urlo eterno ch'è gioia e dolore.

Per mano ti condurrò
sulla sponda del lago.
E vedrai l'ombra rapace del nulla
disseccare turgori fecondi.
E lo stanco sudore che geme
da campi lacerati e sconfitti.

Tu non piangere figlio.
In te è il respiro che desta la vita.

Non piangere figlio.
Per mano ti condurrò.
T'insegnerò che l'alba viene,
dopo la notte.
Saprai silenzi ignoti
e il canto immane del cielo.

E infine.
Per mano mi condurrai.

Memoria (Ballata n.1)

Ero come un'allodola sulla betulla
chiara.
Il fiume sotto le arcate
ripeteva la mia canzone al mondo
e sorrideva piano.
Erano i giorni della luce
e dell'attesa.
Alta e fiduciosa e trepida
camminavo incoronata d'estate.
L'ombra fuggiva lontano
dal mio passo giovane e fiero.
Tra le dita avevo il segreto dell'alba
e il tempo era chiuso nel sogno.

Tutto era fermo e calmo e uguale
come il sole nella pozza di un cortile.

Ma io camminavo cinta d'estate.
Sicura andavo
ad incontrare epici amori.
Eroi e avventure, passioni e possessi
- da altri vissuti, da altri narrati-
attendevano me
in quel certo levante.

Il fiume oggi scorre più scuro.
Nel brivido buio
la sua voce è una culla e poi un pianto.
Smarrite l'estate e le chiavi del tempo
mi trovo qui e sempre
- ora io ferma e uguale-
mentre l'ombra disegna la sera
e l'allodola canta lontano.

Destino

Sterminati arrivederci
ai confini dell'addio.
Gusci d'ambra
trasparenti.
In ognuno
un frammento d'anima.
Luminoso e spento.

Visione

Il profilo dei monti è un seno antico
dove la luna distilla splendore.

Vi guardo, pietre -lunari e terrestri.

Che gli occhi taglienti e inesausti
carpiscano l'incisa memoria.
Ch'io veda ciò che vedeste.
Quando bianchi veli di ninfe boschive
levispumanti cingevano i tronchi
e la pallida luce di Diana
fendeva le fronti fanciulle
danzava negli occhi ridenti.
La quercia suonava d'intatto stupore.
Nel vento restava un sussurro.
Un sussulto rubato a quel canto.

Fantasmi a primavera

Le giovani rane
volano tese nel fossato
perché non le lambisca
l'ombra improvvisa
che trascorre il ciglio.

Non le spaventa l'oscuro
ma il respiro sonoro dei morti
che morde il mio passo.

Vacuità

Ancora una volta
pastora di nuvole
smarrisco
il sentiero dell'oggi.
Imbrigliando rugiada
tendo trappole al sole.
Incauta e testarda
cerco perle tra i sassi.

E consumo la mia ora di luce
inseguendo un ferino tramonto.

Al figlio

La curva morbida della guancia,
la languida geometria del tuo viso
di piccolo dio addormentato,
mi avvincono in eterno stupore.

Ti guardo, e ti guardo (e ti guardo)
e poi temo che tanto guardare
turberà quel lieve sospiro,
il tenero abbraccio del sogno,
che ti cinge le palpebre chiuse.

Sei come l'agnello
che stanco dei prati
si posa fidente
sul fianco materno.
E non sai quanto costa
la tua ignara fiducia
a me che conosco le tele
e i veleni.

Ma tu resta avvolto,
aggrappato al tuo sonno
di rosea conchiglia neonata.
Per te non è l'ora.
Ancora non puoi.
Non devi sapere
l'angoscia
del dolore che preme
e vorrebbe scolpire
il tuo giovane guscio.

Ti guardo.
E tesso per te
impenetrabili scudi.
Nessuna corrente o tempesta
o veleno
ti potrà catturare.
Tu, dormi fidente.
E il mio sguardo ti sia certa corazza.
Impalpabile aura d'amore

lunedì 4 ottobre 2010

Esercizi di dizione (7)

Accetta dunque questi suggerimenti dettati dalla saggezza della vecchiaia: nelle avversità del tuo cammino aggrappati ai tuoi affetti, non cancellare la bellezza, abbi il coraggio delle lacrime. Ogni orizzonte attende il sole e, anche dopo la notte più buia e fosca, immancabilmente torna ad illuminarsi.
Ed ora, afferrati al corrimano, scendi in cucina ed assaggiami uno di questi quindici maccheroni all'arrabbiata.

Esercizi di dizione (6)

Biondo come un angelo,
tondo come il mondo.
Forse un po' abbondante.
Certo non vacante.
Che scherzo queste strofe!
Spiegarvi di chi parlo
non ha nessuno scopo.
Forse è mio cugino
che scuote il suo calzino,
forse il cuoco nuovo
che scoppia nei calzoni,
forse mia cognata
dopo l'operazione.
... E scemo mio fratello
che avendo sposato lei,
ora s'alza con un lui.

domenica 3 ottobre 2010

Esercizi di dizione (5) ovvero: la danza delle gazze

Sulla terrazza appena ramazzata si sono posate due gazze un po' pazze che mi stan scompigliando la glicine e l'azalea a forza di azzuffarsi. Prima di mezzogiorno, zittirò questo schiamazzo. Mi scaglierò in mezzo alla zuffa brandendo una mazza con tutta la mia stazza: voglio che finisca questo indegno andazzo, che sta mettendo a repentaglio anche il silenzio della mia viuzza.
E' vero. Sto rischiando, perdendo pazienza e temperanza, di scapicollarmi a razzo in una azione priva di qualsiasi dolcezza, finezza e gentilezza. Ma tant'è. Voglio fermamente ripristinare sulla terrazza (la mia piccola piazza) quel silenzio, quella pulizia, quella grazia ch'erano la sua essenza prima delle pazze danze di queste gazze.
Vi scaccerò, pazzi uccelli senza prudenza, né ritegno. Inutile chiedervi contegno o temperanza: non ne avete né la scienza, né l'usanza. Gusterò la vostra assenza nel ronzio delle zanzare e nella carezza frizzante e lieve della brezza di questo stupendo azzurro marzo.

sabato 2 ottobre 2010

Esercizi di dizione (4)

Quel lazzarone
inzeppato di fronzoli,
tutto pizzetto zazzera e zoccoli,
gironzola a zonzo
suonando zampogne,
sognando monete
d'oro zecchino.
E' uno zuavo un po' gonzo,
uno zingaro zotico.
Ha uno zio bonzo
a Zavattarello,
una zia zitella
cui ronza un orecchio.
Lo segue una brezza
di zabaione,
zaffate di zenzero e zafferano...
un aroma un po' indiano
e zuccherino,
quasi uno zefiro malandrino.

Esercizi di dizione (3)

Il marchese Fulgenzio
ha preso a servizio
un domestico avventizio.
E' un giovane novizio
dal piglio cardinalizio
col vizio del comizio
e della cartomanzia.
Senza alcuna diplomazia
sotto lo stemma gentilizio
ogni giorno tiene concione
a tutta quanta la popolazione.
Invoca strenne natalizie
zuppe di zucca e zafferano
zucchero e zeppole per Carnevale
un vitalizio prefettizio
per gli zoppetti delle zolfatare...
 manca che chieda per le zitelle
dei fidanzati e facce più belle.
Senza bisogno di divinazione
vedo qui aizzare una fazione
tragico inizio di sedizione.

Esercizi di dizione (2)

In un giorno qualunque di gennaio, dodici o tredici fagiani dalle penne sgargianti se ne stavano sdraiati indugiando sul ciglio di un  fossetto gelato. Erano fagiani giganteschi. Probabilmente il peso di ciascuno raggiungeva i cinque chili; un autentico incitamento alla cottura, da parte di cuochi-cacciatori. In effetti un ingente numero di tali personaggi si aggirava per i boschi nelle vicinanze. Era un gruppo, alquanto agitato, di cuochi di nuova leva. Provenivano da una scuola di cuochi di Pergine Valsugana e si stavano godendo una vacanza-premio ottenuta cucinando alla perfezione cinquecentocinquantacinque diverse ricette a base di uova, piedi di maiale, miele e siero di latte.
Dunque, appena giunti nel luogo di villeggiatura, queste nuove leve della cucina avevano ingenuamente scommesso con il cuoco dell'albergo che li ospitava, che per tutta la vacanza avrebbero provveduto loro stessi a procacciare la cena, quando non anche il pranzo, cacciando nei dintorni, che avevano saputo doviziosi di selvaggina. Così, armati di schioppo e stivaloni ai piedi, scuotendo scomposti borracce e bandoliere, la mattina successiva all'arrivo si erano incamminati a procurare la cena... iniziata e finita col digiuno.
Ed ora eccoli lì, in quel giorno qualunque di gennaio, a rigirarsi gli schioppi tra le braccia, con una cert'aria di tragedia, soffiata fuori da pance più vuote che piene.
Procedevano a ventaglio cercando tra l'erba, scrutando tra i cespugli. Ogni tanto cincischiavano scontenti una ciocca di capelli sfuggita dal cappello mimetico, che ciascuno si era acquistato al negozio di caccia del villaggio. Erano sempre più scontrosi; qualcuno finanche scorbutico, sempre a cagione delle pance e per il fatto che non si vedeva altro in giro che cicogne, aironi, ed altri uccelli inadatti alla pentola.
D'un tratto, due cugini che procedevano appaiati (insieme alla caccia, così come in cucina) lanciarono grida di giubilo. "Ecco i fagiani! Cingiamoli d'assedio!". Urlavano a squarciagola, i due ingenui cuochi cugini. Non sapevano, tapini, che i fagiani, sia pure lentamente e alquanto pesantemente, riescono a volare, in condizioni di spavento. E per l'appunto le urla belluine li avevano spaventati e involati. Purtroppo però, le urla medesime avevano attratto una famiglia di grossi e grassi cinghiali: padre, madre e cinghialini, tutti già muniti di zanne, lucenti e alquanto taglienti e acuminate.
Caricarono tutti insieme, scuotendo vigorosamente le setolose criniere e grugnendo arrabbiati contro quei malnati incauti, che avevano sconvolto la loro quieta siesta.
Puntavano basso; pericolosamente basso...
I giovani cuochi riuscirono a malapena a girarsi, mollando schioppi e cartucciere, e a correre.
Qualcuno li ha poi visti correre ancora sulla strada per Pergine Valsugana.

Esercizi di dizione (1)

Da giorni era inquieto, triste, infelice. Un'inquietudine indicibile, inesplicabile, esecrabile. Una sorta di noia che gli precludeva ogni gioia, gli faceva temere di tirare le cuoia, quasi si fosse incamminato lungo una scorciatoia per la morte; uno stretto, angusto corridoio, che diventava il galoppatoio delle sue tristezze. Poco mancava che dovesse raccogliere le proprie lacrime in un annaffiatoio. Insomma, la sua vita era l'anticamera di un mattatoio dov'era in attesa il boia inverecondo di ogni allegrezza e felicità.
Così quella mattina di dicembre meditava nefandezze guardando il cielo azzurrognolo, quando la vide: lo sguardo languido sotto le ciglia, la mano guantata, l'aspetto esangue, tutt'altro che pingue, di chi non mangia da cinque giorni (e non lo fa per arrivare al traguardo di perdere una taglia...). Nel suo cappotto antipioggia color albicocca, sembrava un ranocchio. Un povero ranocchietto a cui avessero sbagliato colore, tranne che nelle calzette, che aveva corte, striminzite, d'un verdognolo opaco e spento.
Immediatamente gli fece tenerezza. Gli venne voglia di coglierle una foglia, in mancanza di fiori, che lì fuori, col gelo di dicembre, era impossibile trovare, neanche in germoglio.
Bisbigliò tra sé un nome: moglie.
Con sorprendente orgoglio immaginò una famiglia attorno ad una tovaglia natalizia, nella luce giallognola delle candele; un rigoglio di figli, il più piccolo con un bavaglino attorno al collo da folletto birichino. Vide gigli bianchi per la Prima Comunione della più grandicella, e il coniglietto candido che le avrebbero donato. Si vide prode custode dell'approdo solido e sicuro di quella felice brigata radunata al desco fiabesco del Natale, ma anche di ogni giorno a venire. Lontane le doglie e le voglie di morte. La sua sorte mutava: la tragedia era finita... Vide la propria vita scorrere lenta e serena, con qualunque tempo, chiunque avesse incontrato, anche sotto quel cielo dicembrino che lo guardava così poco invitante, anzi, per la verità un poco ributtante.
Ne distolse lo sguardo.
Tornò con gli occhi dov'era lei, povero languido ranocchietto; la moglie del suo sogno; la donna della sua vita, madre dei suoi pingui figli.
Ma... dov'era?
Dov'era?
Ahimè!... Sparita.
Sull'orlo di una pozzanghera gelata, proprio davanti al fosso che si perdeva nell'oscurità fosca del bosco cittadino, una calzetta verde, corta, striminzita. Mezza bagnata.

Istantanea

Stasera
la luce si è sfiatata
lentamente.
E' annegata piano
senza dolore
nel vapore brumoso
sospeso sui campi.
Un pegno
per la magia della luna
risorta.