mercoledì 7 maggio 2014

Lettera a Michel

Non ti chiedo "perché".
In molti te lo chiederanno tra quelli che ti amano.
In molti, si interrogheranno. E qualcuno si sentirà chiamato a dare risposte.
Io non ti chiedo perché.
Di te so pochissimo . Un nome: Michel
L'età : 16 anni.
Studente al secondo anno delle Superiori.
Un fratello, non so se più piccolo o più grande, ma che importa?
Una famiglia più che "normale", con un padre docente universitario e una madre insegnante di religione. Casa in una delle zone "meglio abitate" appena fuori città.
La conosco, sai Michel ? la tua zona. Conosco la chiesa. Ho presente i boschetti appena dietro, l'argine alto a tratti scosceso, a tratti digradante verso il fiume.
Non riesco però ad immaginare il tuo albero.
Non riesco a vederlo.
Non "voglio" vederlo.
Ti vedrei lì appeso a dondolare sopra il tuo zaino di studente; sopra alla bicicletta nera appena comperata.Ti vedrei in un turbine di "manine", avvolto di lanugine come in un sudario.
Un bosco che piange.
E' un niente quello che so di te. Ma mi deflagra dentro con il fragore di un tuono. Mi devasta con la potenza di un colpo a bruciapelo.
Ti sei appeso ad un ramo e ti sei ucciso. Hai detto che andavi al fiume a studiare storia. Che bello, poter studiare in mezzo al canto degli uccelli in amore, nel verde che esplode di primavera col sottofondo quieto dell'acqua che scorre.
Ma nello zaino non avevi i libri.
Sei uscito già sapendo che non avresti studiato.
Ma com'è stato Michel? Mentre camminavi verso il bosco pensavi a come ti saresti appeso? Ti sei chiesto se avresti sentito male? Chi volevi punire? A chi hai pensato con il tuo ultimo respiro?
Non ti chiedo perché. Il tuo zaino vuoto incenerisce ogni richiesta di spiegazioni.
Resto attonita in contemplazione di un mistero. Quello più grande, che ci affratella tutti, noi creature insipienti sull'orlo di un abisso universale.
La vita.
La morte.
Facce dello stesso mistero.
Tutti dobbiamo spendere questa moneta.
Piccolo Michel. Voglio bene al tuo cuore che ha tremato di fronte al mistero. Vedo le tue paure. Avessi incontrato qualcuno, sulla strada del bosco. Qualcuno che ti dicesse:"Anch'io ho paura. Anch'io vedo la sofferenza attorno a me. Anch'io so che il mondo è un luogo di dolore. Anch'io sono stato umiliato. Anch'io ho creduto di non essere amato. Ma guarda Michel. Guarda questo bosco. Ascolta la vita. Ascolta il cuore che batte dentro di te. Sei giovane come questo verde. Tu sei una speranza".
............
Chissà.
Forse il tuo cammino è rimasto solitario.
O forse hai chiuso le orecchie a chi ti parlava di speranza. A chi ti raccontava la vita.
Piccolo Michel.
Trabocco d'amore per te. Non posso farti domande. Posso solo amarti. E rivolgerti una preghiera.
Ora che hai capito, ora che le tue paure sono svanite, ora che sei parte compiuta del mistero, ti prego, da madre, non abbandonare la tua famiglia.
Ora che la tua anima è libera sii il suo sostegno. Stai vicino a loro. Li hai precipitati in una prova grande. 
Aiutali a vedere come non si muore.


mercoledì 29 gennaio 2014

Scioglilingua dalla Brianza del '900

Ti che ta tacat i tac      (Tu che  attacchi i tacchi
tacum i tac!                   attaccami i tacchi!
Mi tacat i tac a ti?          Io attaccare i tacchi a te?
Ti che ta tacat i tac?     Tu che  attacchi i tacchi?
Tacatai ti i to tac           Attaccateli tu i tuoi tacchi
ti che ta tacat i tac!       tu che  attacchi i tacchi!)

lunedì 27 gennaio 2014

Dimmi com'è stata la prima volta con Fabrizio

Ho risposto "No, grazie. Preferisco di no".
Era il 1990. Lunedì di Pasqua. L'automobile correva sull'autostrada verso il mare. Andavamo a prenotare la casa delle vacanze. Mio marito guidava prudente, sotto i limiti di velocità, ma sciolto e sicuro come sempre. Sul sedile posteriore i bambini: la grande, gioiosa per la gita e per il nono compleanno ormai imminente, e il piccolo, sul seggiolino di sicurezza, curioso di quel "mare" che non ricordava di avere mai visto.
In macchina l'autoradio era al palo. Cantava De Andrè e "noi donne" cantavamo con lui. Il mare era sempre più vicino, una galleria dopo l'altra. Monotone. Indistinguibili.
Ma "quella", la ricordo ancora. Per qualche anno ho continuato a rammentarne anche il nome; stravagante, come spesso è il nome delle gallerie autostradali. Spalancava la bocca larga nella giornata luminosa. Si apriva innocente, ma subito dopo, a tradimento, curvava a sinistra. E qualcuno, cento metri avanti, l'aveva pagata: davanti a noi un incidente appena accaduto ci sbarrava completamente la strada. Ricordo, fulminante, la sensazione di pericolo pericolo PERICOLO. Ricordo la frustata di impotenza. Tutti i sensi protesi allo spasimo. Stiamo andando lanciati a schiantarci ("...sparagli Piero sparagli ora...") non c'è spazio di frenata ("...e dopo un colpo sparagli ancora...") quelli dietro ci verranno addosso ("...fino a che non lo vedrai esangue...") ("...cadere a terra...")... Signore proteggici.
Mi ero girata verso i miei figli, in tempo per vedere la mia bimba di neanche nove anni che si buttava con tutto il suo corpo sul fratellino per fargli scudo.
Poi lo schianto. Uno solo. E mentre Piero finiva di morire di maggio, noi ci contavamo soltanto qualche ammaccatura.
Qualcuno davvero ci aveva salvati tutti.
Subito dopo c'era stato il carro attrezzi. L'officina sotto l'autostrada. Un tremito incontrollabile. E per ore, di tanto in tanto, altre frenate stridenti, altri botti e sirene per altre disperazioni nella stessa maledetta galleria.
Ecco perché ho risposto "no grazie". Il mio primo incontro con De Andrè? Non lo ricordo. Mentre è ancora ben vivo, istante per istante, quell'incidente sulle note della morte di Piero. Per molto tempo non avevo più potuto ascoltare neanche una parola di quella canzone. Dunque? Mi spiace. Preferisco non scrivere niente.
Tuttavia la domanda sul "primo incontro" continua a ronzarmi nella testa.
Quasi inavvertitamente ritrovo una dodicenne alla sua prima vera gita scolastica. Gita grande, a Roma. Due pullman, forse anche tre, non ricordo. Sul mio ci si sgola con la ballata di Marinella...una torma di ragazzine cantano commosse con le lacrime agli occhi per un destino triste. E si sentono un poco più grandi.
E poi ancora... vacanze in montagna. Gli anni sono sedici. La canzone, il Pescatore. La canto e soprattutto la fischio con convinzione. Indosso jeans, camicia militare, scarpacce da tennis. La camicia è aderente. Da uomo. Uscita chissà da dove. Elimina ogni parvenza di seno. Io peggioro la situazione calzando fino agli occhi un berrettone con visiera...
Ci penso. Ricordo. Sorrido intenerita. Quanti anni. Quante me. E' vero. De Andrè ha siglato un evento che per un soffio non è stato fatale per me e per le persone che amo. Però mi ha accompagnata lungo tutta l'adolescenza, la giovinezza, la piena maturità, in una ininterrotta serie di "primi incontri". L'ho cantato mentre ero allegra e mentre ero triste, con il ricordo di una paura e con la nostalgia della spensieratezza.
Ed è giusto così.
Io non sono un drago in musica. Conosco poco. Eppure so a memoria note e parole di De Andrè. Me ne rendo conto ora.
Ed è giusto così. Perché lui ha cantato...canta...la vita vera di persone vere. La vita di tutti noi, che arranchiamo giorno dopo giorno nel fango di miserie e debolezze, spesso senza un lieto fine. Lui, il Faber, ci mostra i nostri peccati. Ma ci indica anche la via luminosa della poesia. E la certezza che anche "...dal letame nascono i fior".