lunedì 27 gennaio 2014

Dimmi com'è stata la prima volta con Fabrizio

Ho risposto "No, grazie. Preferisco di no".
Era il 1990. Lunedì di Pasqua. L'automobile correva sull'autostrada verso il mare. Andavamo a prenotare la casa delle vacanze. Mio marito guidava prudente, sotto i limiti di velocità, ma sciolto e sicuro come sempre. Sul sedile posteriore i bambini: la grande, gioiosa per la gita e per il nono compleanno ormai imminente, e il piccolo, sul seggiolino di sicurezza, curioso di quel "mare" che non ricordava di avere mai visto.
In macchina l'autoradio era al palo. Cantava De Andrè e "noi donne" cantavamo con lui. Il mare era sempre più vicino, una galleria dopo l'altra. Monotone. Indistinguibili.
Ma "quella", la ricordo ancora. Per qualche anno ho continuato a rammentarne anche il nome; stravagante, come spesso è il nome delle gallerie autostradali. Spalancava la bocca larga nella giornata luminosa. Si apriva innocente, ma subito dopo, a tradimento, curvava a sinistra. E qualcuno, cento metri avanti, l'aveva pagata: davanti a noi un incidente appena accaduto ci sbarrava completamente la strada. Ricordo, fulminante, la sensazione di pericolo pericolo PERICOLO. Ricordo la frustata di impotenza. Tutti i sensi protesi allo spasimo. Stiamo andando lanciati a schiantarci ("...sparagli Piero sparagli ora...") non c'è spazio di frenata ("...e dopo un colpo sparagli ancora...") quelli dietro ci verranno addosso ("...fino a che non lo vedrai esangue...") ("...cadere a terra...")... Signore proteggici.
Mi ero girata verso i miei figli, in tempo per vedere la mia bimba di neanche nove anni che si buttava con tutto il suo corpo sul fratellino per fargli scudo.
Poi lo schianto. Uno solo. E mentre Piero finiva di morire di maggio, noi ci contavamo soltanto qualche ammaccatura.
Qualcuno davvero ci aveva salvati tutti.
Subito dopo c'era stato il carro attrezzi. L'officina sotto l'autostrada. Un tremito incontrollabile. E per ore, di tanto in tanto, altre frenate stridenti, altri botti e sirene per altre disperazioni nella stessa maledetta galleria.
Ecco perché ho risposto "no grazie". Il mio primo incontro con De Andrè? Non lo ricordo. Mentre è ancora ben vivo, istante per istante, quell'incidente sulle note della morte di Piero. Per molto tempo non avevo più potuto ascoltare neanche una parola di quella canzone. Dunque? Mi spiace. Preferisco non scrivere niente.
Tuttavia la domanda sul "primo incontro" continua a ronzarmi nella testa.
Quasi inavvertitamente ritrovo una dodicenne alla sua prima vera gita scolastica. Gita grande, a Roma. Due pullman, forse anche tre, non ricordo. Sul mio ci si sgola con la ballata di Marinella...una torma di ragazzine cantano commosse con le lacrime agli occhi per un destino triste. E si sentono un poco più grandi.
E poi ancora... vacanze in montagna. Gli anni sono sedici. La canzone, il Pescatore. La canto e soprattutto la fischio con convinzione. Indosso jeans, camicia militare, scarpacce da tennis. La camicia è aderente. Da uomo. Uscita chissà da dove. Elimina ogni parvenza di seno. Io peggioro la situazione calzando fino agli occhi un berrettone con visiera...
Ci penso. Ricordo. Sorrido intenerita. Quanti anni. Quante me. E' vero. De Andrè ha siglato un evento che per un soffio non è stato fatale per me e per le persone che amo. Però mi ha accompagnata lungo tutta l'adolescenza, la giovinezza, la piena maturità, in una ininterrotta serie di "primi incontri". L'ho cantato mentre ero allegra e mentre ero triste, con il ricordo di una paura e con la nostalgia della spensieratezza.
Ed è giusto così.
Io non sono un drago in musica. Conosco poco. Eppure so a memoria note e parole di De Andrè. Me ne rendo conto ora.
Ed è giusto così. Perché lui ha cantato...canta...la vita vera di persone vere. La vita di tutti noi, che arranchiamo giorno dopo giorno nel fango di miserie e debolezze, spesso senza un lieto fine. Lui, il Faber, ci mostra i nostri peccati. Ma ci indica anche la via luminosa della poesia. E la certezza che anche "...dal letame nascono i fior".

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